Angeli, limoni, pappagalli e tartarughe
curated by Paolo Emilio Antognoli
Prima sala, piano terra.
L’ingresso è consentito a tre persone alla volta. Una tartaruga  di bronzo, sul modello del Giardino di Bomarzo, è la prima scultura che si incontra, legata, quasi al guinzaglio, a un filo rosso di lana – ci si chiede, senza trovare risposta, se sia come entrare in un giardino o in un labirinto. La scultura è poggiata più avanti, nella stanza, sul lato del tavolo rivolto all’ingresso. Il suo piano rettangolare poi prosegue verso il retro creando un raccordo con la parte interna della galleria.
Sul tavolo poggia un gruppo scultoreo formato da un’agave di legno intagliata da uno scultore novecentesco, sulla quale posa un pappagallo bianco di ceramica. Il pappagallo, formato dal ceramista Ugo Zaccagnini, ha un’ala restaurata in oro alla maniera giapponese del Kintsugi.
Se la presenza del pappagallo può ricordare altri pappagalli – a partire da quello di Jannis Kounellis del 1967 – sul capo del volatile poggia un limone giallo di ceramica – regalo di un artista che ha partecipato a una Biennale di Venezia degli anni Settanta.
Il gruppo scultoreo è formato dall’intero insieme, tavolo incluso, che non funge solamente come base ma fa parte del tutto, finché resta in galleria. Questo vale anche per gli altri gruppi scultorei, che all’interno dello spazio sono indipendenti ma in dialogo fra loro.
Dunque: una tartaruga di bronzo legata a un filo rosso di lana, un tavolo, un’agave di legno, un pappagallo di ceramica e oro, un limone di marmo.
A sinistra la parete è ravvivata da diversi colori.
2.
Ancora al piano terra.
Sul retro, dietro la scultura sul tavolo, alla destra di chi entra, si trova una lampada in marmo del primo Novecento reimpiegata come base, che poggia su una botola di vetro. Il vetro mostra il piano sottostante. Sulla lampada poggia in equilibrio precario la scultura di una zucca.
Michelangelo ha realizzato 3 zucche di ceramica: una bianca, una nera e un’altra di terra cruda.
Nella mostra espone la zucca bianca, che presenta sette fori circolari.
All’interno della zucca è riposta una cassa wireless che trasmette voci dal mondo: una raccolta di materiali sonori, testi recitati, spezzoni di musiche, film, canzoni *.
* Postilla. Questa stessa elencazione di materiali mi ricorda fra l’altro una canzone di Sergio Endrigo («Per fare un tavolo ci vuole il legno / Per fare il legno ci vuole l’albero / […] il seme / […] il frutto / […] il fiore…»)
Sul retro della galleria, la botola in vetro mostra parte della stanza sottostante illuminata a candela.
Seconda sala al piano inferiore.
Dal fondo della galleria si scendono le scale. Una volta in basso, si è bloccati da un secondo filo rosso. Il filo ritaglia nel quadrato della stanza uno spazio triangolare.
In questa stanza sotterranea – tra la segreta, la cripta e l’andito archeologico – si trova l’Autoritratto.
Il visitatore deve piegarsi per osservare la scultura, visibile a lume di candela.
L’Autoritratto è un insieme composto da una scultura di legno, collocata su una lastra di marmo – materiale di scarto di un artista dell’Arte Povera – poggiata a sua volta su una base di ciliegio – un albero, formato da tre parti: radici, fusto e rami, che dà frutti rossi.
La scultura di legno è una figura barbuta preesistente, un po’ naïf, in cui l’artista si è riconosciuto.
Sulla testa della scultura si posa in equilibro precario una pietra piramidale. La pietra reca all’interno una conchiglia fossile.
Il fossile sta per la sua fissazione con la Storia. Il materiale, come la Storia, è pesante e trattiene verso il basso, ma la scultura non si radica a terra – come un albero, come il ciliegio rosso – semplicemente poggia a terra, gravando col suo peso.
Sopra il fossile poggia in equilibrio un’asticella di bronzo – il residuo di fonderia di un noto artista contemporaneo. Nell’asticella sono infilati, da destra e da sinistra, due uccellini portatovaglioli di legno forato. Negli anni Ottanta, questi uccellini stilizzati sono stati acquistati dai genitori dell’artista come souvenir durante un viaggio in Cecoslovacchia – ancora tra i paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica. L’intero gruppo, scultura e basamento, hanno la stessa altezza dell’artista: 1 metro e 75 centimetri.
La scultura è isolata dallo spettatore per mezzo del filo rosso. Questo filo, se ricorda il cavo divisorio installato a Milano ed espunto da un libro dedicato all’Isola Art Center, serve soprattutto a isolare la scultura.
Non ci si può avvicinare all’autoritratto. Non si può accedere al suo spazio dove tutto è in precario equilibro. Anche metaforicamente: è impossibile accedere ai pensieri dell’artista. Ci si limita a uno sguardo a distanza sulla scultura. Dalla zucca, al piano di sopra, si possono ancora ascoltare dei suoni dal mondo, non più nell’autoritratto sottostante, dove regna il silenzio.
Nel piano sottostante, si trovano quasi gli stessi materiali del piano terra, legno, oro, marmo, la sua pesantezza, inoltre la pietra e la conchiglia fossile.
Terza sala al primo piano.
Dal piano sotterraneo, si risalgono due rampe di scale per accedere alla saletta superiore, con vista sull’ingresso. È quasi un percorso ascensionale, serpentinato. Le scale dell’ultima rampa sono più difficili da salire e si accede al primo piano dove è collocato, appeso a parete, il disegno di un Angelo incorniciato, realizzato a matita HB su carta tedesca Schoellershammer. La carta, secondo l’artista, era la stessa utilizzata dagli artisti di regime degli anni Trenta-Quaranta.
Al piano superiore, per illuminare il disegno dell’angelo innumerevoli spot a braccio, fissati su un binario continuo, sono collocati nello spazio antistante. L’impatto abbagliante delle luci rende l’angelo quasi invisibile. Lo spettatore, di fronte all’angelo, sente il calore delle luci dietro la schiena. Solo la sua ombra, schermando i faretti, gli permette una visione del disegno: come se l’uomo facesse ombra allo splendore dell’angelo.
5.
Spazio letterale e metaforico.
L’artista occupa temporaneamente lo spazio fisico della mostra. Lo ripensa a partire dalla sua più semplice letteralità. Lo viene a conoscere. È naturale che acquisisca una nuova visione metaforica, uno spessore, una dimensione immaginaria conoscibile soltanto tramite i segni disseminati in quell’ambiente.
In questo spazio metaforico, il piano terra diventa appunto la Terra: una rappresentazione del mondo, i pensieri sul mondo…
Nella saletta sul retro, la zucca è un oggetto che abita il mondo. Dalla zucca si emettono lacerti sonori. È qualcosa che sta nella zucca e metaforicamente nella testa dell’artista, la quale sta nel mondo…
Al piano di sopra, più alto, c’è uno spazio più leggero. Non vi si trova una scultura ma il disegno di un’entità divina, immateriale: la raffigurazione di un angelo. Un angelo perché l’artista, cresciuto in una cultura cattolica, trova nell’angelo una presenza familiare. In Oriente avrebbe scelto divinità o figure più prossime. L’angelo perciò non ha alcuna importanza in quanto appartenente a una religione, ma solo in quanto parte di un desiderio. L’angelo vola, è leggero, è immateriale. Viene richiamato nella mostra a liberare da un mondo pesante e gravante, quasi la speranza che un’entità divina liberi dai pensieri pesanti, dalla morte e dal dolore…
6.
Starways.
La scala ha una funzione di collegamento e mediazione. Implica un’azione: scalare per andare verso l’alto o scendere con cautela verso il basso. Lo spettatore è libero, ma per visionare la mostra deve sforzarsi fisicamente, acquisirne un’esperienza reale, che è in prima istanza fisica: conoscere tramite il dolore e la fatica.
Le coordinate geofisiche dello spazio assumono anche coordinate culturali e metaforiche (l’alto, il basso, la scalata, la discesa, la fatica…), ma a un grado immediato, intuitivo, senza referenze intellettuali.
Non c’è, difatti, un significato fisso che debba legarsi a queste opere al di fuori di un grado elementare. Non si tratta di un lavoro che richieda istruzioni per l’uso o chiavi di lettura.
Tutto il lavoro si lascia leggere in modo semplice e intuitivo.
Nemmeno questo testo ha valore di interpretazione.
 
7.
Riciclo e memoria.
Per l’artista, il rapporto con il passato e la memoria, nella costruzione del suo lavoro, si è fatto nel tempo più complesso e profondo.
I gruppi sono formati da materiali eterogenei, anche pezzi di scarto talvolta firmati da altri artisti. L’assemblaggio non mira ad affermarsi come nuova entità che cancelli la memoria dei suoi materiali costitutivi. Al contrario, ogni componente reimpiegato porta con sé la propria storia volutamente riconoscibile.
8.
Prini.
 
«Non ho fatto io il tavolo dove mangio né la sedia dove sono seduto…» è una frase del suo maestro Emilio Prini. Michelangelo ha riutilizzato questa frase, appresa al tempo della sua collaborazione con l’artista, per una riflessione divenuta nel corso degli anni sempre più centrale.
Ricordo che fu Michelangelo, una sera, a presentarmi Prini a San Gimignano. Ne avevo grande ammirazione. Così iniziai a frequentarlo. Un giorno, nella sua casa romana al piano terra, Emilio poneva domande a cui lui stesso alla fine rispondeva. Domande del tipo: Qual’è stata l’alternativa a Duchamp? Mi pare rispondesse: Forse Fontana
Da allora mi sono chiesto, quale fosse invece, in questo contesto, il posto che Emilio assegnava a se stesso. Quale alternativa pensava di occupare, lui sempre così attento alla sua presenza e alla sua assenza dalle cose?
Emilio aveva sempre una visione obiettiva e realistica anche delle cose proiettate al futuro. Ricordo che allora al telefono, in un conversazione fiume, parlammo della Cina. Diceva: che numeri impressionanti e che quantità di materiali sarebbero stati necessari per dotare ogni cinese di un personal computer…
Fu invece in quello stesso giorno romano che Emilio definì Michelangelo, che non era presente, demone giapponese. Non ho mai capito fino in fondo che significasse, ma, anni dopo, non mi sorpresi delle sue mostre in Giappone.*
* Addenda al testo. La parete sinistra dell’ingresso presenta un spettro di colori. Nella sua personale giapponese del 2014 Michelangelo aveva presentato una parete di diversi colori, in cui ogni colore si riferiva a un personaggio marginale di cui si trattava all’interno della mostra. Pochi giorni fa, dopo l’inaugurazione della retrospettiva dedicata a Emilio Prini a Torino, si è scoperto che l’ultimo lavoro del Maestro presenta una parete di colori in cui ciascun colore è riferibile a un artista. Proprio a questa sintonia a distanza, sorprendente, si deve la presenza dei colori nella parete di ingresso: come un discorso di lungo corso avviato da lungo tempo… (Bxl. 5 novembre)
8.
Intuizione delle forze reali e dei conduttori di energia.
Se Consani è stato fra i primi artisti italiani a riflettere in modo originale su certi aspetti della realtà che legano l’artista al mondo su temi adesso di moda (l’arte nelle sue relazioni con la natura, l’ecologia, l’ambiente, il design, l’economia, la politica…), questi poi, nel tempo, hanno trovato modi sempre più interiori e profondi di rigenerazione.
Con il lavoro iniziato un quindicennio fa sulla conservazione e dispersione di energia,* Michelangelo ha cercato d’altro canto di scongiurare l’insidia un lavoro troppo sbilanciato su temi o su mitologie personali.
A partire dalle riflessioni sull’Arte Povera, passando per innumerevoli incontri su questo percorso, fra cui l’arte orientale, Michelangelo ha cercato di spogliare la ricerca da ogni involucro opaco a favore della sostanza.
* Postilla: Il lavoro sull’energia ha molte valenze e risulta difficile sintetizzarlo. Una sera di diversi anni fa in un albergo di Monaco di Baviera si parlava di energia. Mentre si parlava si cercava di tenere in piedi al primo colpo alcune monete su un piano di quercia. Era d’altra parte come una riprova del discorso, come se altrimenti il discorso non stesse in piedi. Ma questo soprattutto aveva relazione con le cose nello spazio. Ci sono punti precisi in cui le forze e le venature del legno consentivano alle monete di stare in verticale, non in altri. Il gioco implicava l’intuizione di quei punti esatti e si trattava di gioco simbolico.
9.
Il processo poetico dell’artista, che produce e allestisce il suo lavoro a partire da queste forze reali e concrete, è paragonabile a quello dello spettatore nel momento in cui cerca di intuire l’altro.
10.
A Portrait of the Artist as …
C’è una naturalezza in questo lavoro raggiunta attraverso l’umiltà; l’artista non si pone su un piedistallo al di sopra delle cose. Il processo di creazione è concepito come qualcosa che preesiste all’artista, che passa attraverso di lui come un flusso che non gli appartiene, che si percepisce solamente dal suo livello più basso, restando vicini al greto dove la realtà si forma. Ma la realtà d’altra parte è conflittuale e contraddittoria.
Paradossalmente si enfatizza l’assemblaggio delle cose più diverse, l’appropriazione e il reimpiego di scarti e opere altrui senza alcun citazionismo, come se l’intimità fosse un processo plurale più profondo e liberatorio della seconda mano.
11.
Verso una casa del tè
Il lavoro con cui si presenta per la prima volta nella sua città, Livorno, è una sorta di autoritratto molto intimo e personale, quasi una messa a nudo dei suoi processi poetici e di sé stesso.
Questa mostra, pertanto, è qualcosa di più di un padiglione provvisorio del suo viaggio, di un riparo temporaneo, è quasi una casa del tè in cui invitare compagni di viaggio.
(Bruxelles, 7 agosto 019 + addenda 5 novembre 019)