E RESTEREMO NEL FERRO DEI BALOCCHI:
Roberto Carifi, Amorosa sempre / Poesie (1980-2018), Milano 2018, p.62.
1AntefattoQuando feci il mio primo sopralluogo, e vidi il capannone, il piazzale, e la straordinaria Via Gorizia – nomen omen -, un luogo di confine fra territori e epoche, pensai a Roberto Carifi e, alla libreria dello Spazio di Via dell’Ospizio, presi la sua maggiore raccolta di poesie, Amorosa sempre.Pensammo allora che la sua poesia potesse esserci di viatico.
Le cose poi sono andate in altro modo. Resta, per me, quel rumore di fondo. Attraverso’ il campo di patate senza farsi alcun male è piena di risonanze, accoglie letteralmente suoni, ne sollecita, a suo modo, l’entrata, spesso sommessa, da un altrove.Attraverso’ il campo di patate senza farsi alcun maleDue amori di altri che vollero, non so perché, sfiorarmi, in epoche diverse e tanto lontane che sembrano appartenere ad altre vite, reagiscono di seguito, uno dopo l’altra, a questo annuncio, che è un titolo, ma che ambedue prendono/sentono come affermazione di un qualcosa: “che è già opera”, mi spiega Antonio.Pina – dalla sua inebriante, profumata, antica Sardegna
profonda che si porta appresso, addosso, nonostante la lunga lontananza – mi/si chiede del senso: “In che senso?”
Pasquale – dalla sua Calabria corrusca di energia panica – afferma perentoriamente: “ti garantisco che in un campo di patate è impossibile farsi male, escluso che nel mio ché è pericoloso anche solo guardarlo /…/”.Tranquilli: è il titolo. Un titolo di un tipo che, se non specificatamente nell’arte, dove i titoli delle opere hanno la maggior parte delle volte la funzione di una legittimazione descrittiva o reattiva o addirittura polemica, si rifà a una grande tradizione, anche se relativamente recente, nella letteratura, nel teatro e nel cinema, quella di valersi di un parallelismo variamente incidentale con l’opera: da Raymond Roussel a Eugène Ionesco, da Haruki Murakami a Béla Tarr. Ha la brevità compressa di un haiku, senza averne la rigorosa struttura. E’ un enunciato sgombro di conseguenze, anche se ce ne saranno, e saranno riconoscibili per lo più di traverso. Annuncia uno stato più che indicarlo, uno stato che al momento non c’è ed è molto improbabile che ci sarà, anche se a quell’annuncio corrisponderà un evento, un’opera. E’ segno infine, che, traendo la propria origine da una intimità inconfessabile, aggancia una sorta di esistenza parallela e, a sua volta, nella propria incongruenza tende a riscattare quella della ‘realtà’ del vivere comune. Come un funambolo che gioca con la gravità, senza rete: “ton fil cependant /…./ n!oublie pas que c!est à ses vertus que tu dois ta grâce2”.
Quel che annuncia questo in questo caso si manifesta in cinque stanze, anche e soprattutto nel senso della metrica in poesia3. Spiazzandosi tuttavia dalla linea tesa e malinconica su cui si erano disposti trent’anni fa Giorgio Agamben e quindi Jan Vercruysse4, quel che vi si manifesta scopre lo spazio oscuro sottostante a quella medesima linea. Raso terra. Il campo di patate.
STANZA 1: Una pura formalità
Uno degli effetti dell’irresistibile caduta della civiltà dell’Occidente è la perdita del centro, nel suo antico e consolidato significato e nella sua funzionalità, e, parallelamente, l’emergere dei suburbi, delle periferie, delle province, dei margini, delle terre di nessuno: AYOR, At Your Own Risk. Come dice Pasquale, che di tutto questo ne sa qualcosa.
2 Jean Genet, Le Funambule, 19583
Wikipedia: In poesia, una stanza è una porzione di una grande composizione come un poema.
4 Giorgio Agamben, Stanze/La parola e il fantasma nella letteratura occidentale,Torino 1977, e Jan Vercruysse, Tombeaux (Stanza), opere e mostre che si manifestano in forme diverse in spazi diversi fra il 1988 (Locus Solus, Genova) e il 1992 (Castello di Rivoli).
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Per cui quel che resta del centro, o della mostra, come centro effimero dove l’opera viene a manifestarsi, a venire alla luce, è una pura formalità. Lina, il discreto compositore cambogiano di Wrapped Future, mi manda in questi giorni immagini del centro vuoto di Phnom Penh e mi comunica la sua meraviglia. Ray, più avvertito, quelle delle spiagge di Pattaya e me ne offre, offre a me, proprio a me, senza parole, la bellezza. Altri prima lo avevano fatto con New York, con Venezia, svuotate dalla pandemia, e non è lo stesso: voi non sapete, non avete visto, non avete saputo voluto vedere.
Qui ora un’epitome difforme di un campo di patate, come spargimento, diffusione, sparpagliamento (dis-)ordinato oltre i limiti, su cui domina, come dominava sui morti e sui superstiti del Radeau de La Méduse il negro che agitava con il braccio alzato il drappo rosso per la salvezza, “l’’eminence’ noir au sommet d’une pyramide humaine”5, qui ora la scultura sul suo trespolo tinto di verde di una testa in gesso tinto di nero di un giovane. Lo stile è quello delle rappresentazioni monumentali allegoriche in forma di figure virili tipiche dell’arte dei totalitarismi del secolo scorso, che si equivalgono esteticamente che siano fascisti, sovietici o nazisti. La scultura comprende anche un incudine e un martello, quest’ultimo rotto, il frammento spezzato riposizionato sulla testa del giovane. Un filo di lana rosso vi si avvolge e taglia il volto in un contrappunto cromatico di grande effetto, che, a me, ricorda i colori di una bandiera degli anarchici.
Sulla parete lasciata com’era quando il capannone era adibito ad uso industriale, e non ne sono state cancellate le tracce, una quadreria sghemba di disegni di coccodrilli, anch’essi, come la parete che li accoglie, residui di un altro tempo che si perpetua, pur in via di estinzione, nel nostro tempo di cartongesso e di Lacoste. Ma mi viene anche da pensare al coccodrillo di Neverland, l’Isola-che-non-c’è, dimenticata e perduta, che attende a bocca aperta Captain Hook, Capitan Uncino, inesorabilmente, il tempo scandito dal ticchettio dell’orologio che ha ingoiato insieme al suo braccio6.
In piena luce sulla parete opposta la proiezione, flebile, di Progetto di disperdere energia, 2008, la cicala delle estati assolate del Mediterraneo, della controra pomeridiana, di Delfi e del Fedro platonico, della mia infanzia nelle strade sassose fra i cipressi.
Una pura formalità ha una sua musica, quella della canzone di Gene Kelly che è anche titolo del film Singin’ in the Rain7. E’ la merry melody di una resilienza post traumatica e un annuncio di tempi più felici: il superamento della Grande Depressione del 1929, l’inizio della corsa al benessere negli
5 Bona Mangangu su France Culture la mattina del 23 marzo 2019.
6 J.M.Barrie, Peter Pan, or The Boy Who Wouldn’t Grow Up, 1904: a “fairy play”.
7 diretto da Gene Kelly stesso e da Stanley Donen. Il titolo è quello di una canzone del 1929 di Arthur Freed, autore del testo, e da Nacio Herb Brown, autore della melodia.
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anni 1950. La adotta sarcasticamente Stanley Kubrick nel suo A Clockwork Orange del 1971 e la utilizza come contrappunto musicale ad una delle scene di violenza più disturbanti del film, invertendone la significazione: non più annuncio di tempi migliori, ma anticipazione della catastrofe, il massacro di Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e la Crisi Energetica del 1973 sono dietro l’angolo, singing’ in the rain.
Il suono antico della cicala egea colma, flebile e persistente, gli intervalli e non è, questa volta, una pura formalità.
STANZA 2: La migliore offerta
Nell’ufficio un display comme il faut: campana di vetro, fermacarte che tiene copie di qualche documento, probabilmente diventato inutile, una pila di patate, due quadri.
Ma …Eh si’: la campana di vetro copre una patata di bronzo, che è più o meno simile a quelle che erano numerose in Una pura formalità; il primo titolo del fermacarte era stato, nel 2005, Anarchica morte di un occidentale8; sul primo foglio sotto il fermacarte si legge: “L’artista svuota cio’ che l’arte ha riempito.”9; le patate sono di marmo; nei due quadri sono disegnate figure angeliche. La migliore offerta sicuramente,e nondimeno Et vos estote parati quia qua nescitis hora (Matteo 24,44).
STANZA 3: Cosi’ lontano cosi’ vicinoSta naturalmente a sé.
Serena fa circolare un brevissimo video con una ripresa dal basso verso l’alto. Immediati feed-back.
8 Michelangelo Consani, Anarchica morte di un occidentale, White Project, Pescara 2005.9 in: Pier Luigi Tazzi, Okinawa, in: Skip – intro / Michelangelo Consani, Shin, Milano 2008.
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Tomaso: “Macchine celibi”, a cui rispondo che questa, come altre di oggi, sembrano, ancora più di quelle storiche di Duchamp e compagni, destinate a un’impotenza, un impotenza, quelle come queste, voluta dai loro stessi costruttori, allora come ora, ma in queste, e in questa in particolare, aleggia una struggente nostalgia di potenza.
Dilo, gentile: ”mi ricorda Danh Võ.” Più giovane Dilo ne ha riconosciuto il tipo di articolazione compositiva e non ha guardato ai significati, e forse è giusto che ora sia cosi’ che si debbano guardare le cose: non i loro significati, ma come sono state articolate, montate, alla fine è tutta una questione di montaggio. E il tipo di montaggio qui impiegato ricorda Danh Võ e
compare prima di lui in David Hammons, in its instoppable drive, where the constant pulse of life is not interrupted even by death and everything continues as if in perpetual bedlam10, che a sua volta l’aveva mutuato dalla cultura afro-americana, a cui apparteneva, dai Black Panther, da Sun Ra Arkestra.
Ora David Hammons e Danh Võ emergono da culture soggette, quella degli Afro-americani con la loro storia di schiavitù e di discriminazione
razziale, per il primo, quella prodotta dalla colonizzazione europea e dalla diaspora, per il secondo, nato in Vietnam da genitori sudvietnamiti cattolici rifugiatisi in Danimarca dopo la caduta di Saigon, e trent’anni più giovane: la loro grammatica mostra delle similarità nello stesso modo che le presentano le loro pur lontanissime storie. E allora mi chiedo che cosa pone Michelangelo Consani su questa linea di adozione di un simile montaggio dell’opera. Da che cosa dipenderebbe questa sua soggezione nel caso che volessimo accostare la sua storia a quella dei due artisti precedenti? Quale sarebbe insomma la cultura soggetta da cui scaturirebbe il suo modus operandi? Questione aperta, eppure cosi’ lontana cosi’ vicina.
STANZA 4: 2046
Il cortile, e quindi Rear Window, 1954, pullulante di esistenze minori come patate colorate, Technicolor e Pier Luigi Ighina, ma anche Fellini anni 1950 e Pasolini dieci anni dopo. Nature morte. Rada disseminazione. Nascondimenti. Puntamenti di una cromia minore e parcellare. Accostamenti brevi come altrettanto brevi paesaggi. Ma siamo fuori ormai, e ci si perde, ci si perde di vista. Tuttavia una potenza non simulata per quanto ridotta: i colori con cui sono state dipinte le patate sono quelli delle macchine di Ighina che facevano piovere e sedavano i terremoti.
10 Pier Luigi Tazzi, ‘Art and Happiness: A Parallel Story with Odd Omissions’, in: Happiness: A Survival Guide for Art and Life, Mori Art Museum, Tokyo 2003, p.29.
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Comunque “/w/henever someone asked why I left 2046, I always gave them some vague answer.”STANZA 5: VIA PIER LUIGI IGHINA MILANO 1908 – IMOLA 2004 SCIEN- ZIATOSiamo usciti, siamo già per strada, una strada che per noi cambia nome, VIA PIER LUIGI IGHINA / MILANO 1908 – IMOLA 2004/ SCIENZIATO, uno degli eroi di Consani. Siamo fuori, ancora più nascosti, mimetizzati, semi-occultati, ed è tutt’altro che certo per quanto tempo manterremo la posizione.Pier Luigi Tazzi Capalle aprile 2021