La festa allestita da Navin Rawanchaikul per la presentazione del suo libro Navin’s Salaa The River il 3 luglio del 2008 fu particolarmente grandiosa.
Il complesso architettonico The River non era ancora finito e contava fino a quel momento solo due piani, eppure erano stati già venduti parecchi degli appartamenti che avrebbero occupato i piani superiori che ancora non c’erano. La Jim Thompson vendeva i suoi prodotti disegnati da Navin. Una mini-retrospettiva dell’opera di Navin, curata da Steven Pettifor, si espandeva a partire dal secondo piano negli altri spazi. Inson Wongsam, l’eroe di una delle opere più suggestive di Navin, Fly with Me to Another World, 2000-2009, era fra i numerosi invitati e indossava, come anche Navin e i suoi più stretti collaboratori e più frequenti personaggi, una giacca disegnata da Navin in omaggio a Jim Thompson. C’erano differenti buffet. C’era un piccolo gruppo di tassisti di Bangkok che avevano parcheggiato in bell’ordine le loro macchine azzurre contro una grande scritta che recitava HAIL A RIDE WITH NAVIN GALLERY BANGKOK.
Non solo non c’era un centro – l’opera, l’opera dell’artista, la mostra, il libro, la festa stessa –, ma tutto era decentrato. Al vuoto occidentale (levide, the void) rispondeva in maniera paradigmatica il pieno orientale[1]: uno spazio depolarizzato indefinitivamente saturato di centri che alla fine sembra non averne alcuno, materializzazione di una isotropia che si estendeva oltre lo spazio della festa – The River – nella notte di Bangkok, e nelle notti del mondo che si rincorrono, come il sole, apportatore di luce, intorno al globo terrestre, tolomeicamente parlando.
2.La festa è già finita?
Michelangelo Consani, invertendo il punto di vista e il piano di visione, tenta un’operazione analoga con il tempo della Storia. Il titolo del suo evento, La festa è finita, è come una risposta, spiazzata nello spazio e nel tempo, all’evento di Navin, che era festa senza averne il nome. Per Consani la festa c’è stata, ha avuto quel nome, ma ora è finita: La festa èfinita. E’ come essere in un post-, in un dopo, stando dentro un evento che non è commemorazione o celebrazione o indagine retrospettiva, in figuris, di un qualcosa che è stato, ed è stato, quanto esplicitazione di un essere presente, di uno stare nel presente. Questa presentificazione è dovuta alla consistenza, estetica e discorsiva, di ogni elemento che compone l’ambiente costruito per l’occasione determinata dall’evento, e dell’insieme coesivo di tutti. Ciascuno di questi elementi è costituito da immagini fisse e in movimento nonché da una sparuta serie di oggetti, ognuno dei quali è il prodotto di una trasformazione, sia di materiali che di funzioni. Nessuno di questi elementi è quello che era all’origine, prossima o remota che sia. Questa trasformazione è indice della loro rispettiva presentificazione. Siamo tutti nel nostro tempo [Quale?]. Inoltre ciascun elemento, sotto qualsiasi forma si presenti e indifferentemente rispetto ad essa – circolazione libera consentita fra i media disponibili -, riguarda gli undici ‘invitati’. Tutti personaggi, senza interpreti, del secolo scorso, cordone ombelicale non ancora tagliato: dal gangster John HerbertDillinger(1903 – 1934) all’industrialeHenry Ford (1863 – 1947) e alla fabbrica, parimenti statunitense, di trattori agricoli (dal 1914 al 1999) Allis Chalmer, dal registaMarco Ferreri (1928 – 1997) all’attore MichelPiccoli (1925, uno dei due invitati ancora in vita) e all’artista Mario Schifano (1934 – 1998), dal geofisico statunitense della Shell Marion KingHubbert (1903 – 1989) e dal geologo britannico Colin Campbell (1931, l’altro invitato ancora in vita)al designerAchille Castiglioni (1918 – 2002), e infine i due pionieri di un’agricoltura alternativa l’inglese Arthur Hollins (1915-2005) e il giapponese Masanobu Fukuoka[2](1913 – 2008). Il crimine individuale, l’industria, il petrolio, il cinema, l’arte, il design, le pratiche produttive alternative, disegnano un quadro preciso quanto inconsueto del secolo da cui siamo usciti e ne rilevano una storia affatto particolare che si protrae nel nostro presente nutrendolo e intossicandolo. Non tanto a tenerli insieme, ché si sottraggono, di fatto, ad ogni congruenza reciproca, quanto ad inserirli in una sorta di catena sequenziale, non sono caratteri comuni ma accostamenti minimi, dati di fatto concreti – per esempio: la macchina usata da Dillinger per le sue rapine è una Ford; oppure: Ferreri fa un film dal titolo Dillinger èmorto (1969) di cui è protagonista Piccoli e che è girato in parte nella casa di Schifano -, come in un cadavre exquis a carte scoperte. Ciascuno degli ‘invitati’ ha contribuito alla storia del loro secolo, e non tanto l’ha fatta quanto ne è stato espressione. La loro vita o carriera o semplicemente figura presenta delle contraddizioni interne, intrinseche, come la vita in genere per tutti. Contraddizioni, queste svolte, queste deviazioni, incongruenze, vicoli ciechi o strade aperte o sentieri interrotti, non costituiscono tanto l’essenza, la qualità o il valore (oggettivo?), del loro vissuto o del loro operato o del loro lascito, per quanto grande o piccolo quest’ultimo sia stato, quanto assumono i connotati di tratti fisiognomici individuali – come, non so, a qualcuno capita di avere i capelli rossi, come è capitato a me. Tuttavia è su questi tratti che sembra insistere il progetto di Consani di riunirli nel ruolo di invitati alla festa, che come recita il titolo è finita, nello stesso modo che il portato del loro operato è trascorso: sono usciti dalla vita e sono entrati nel paradosso della storia. Il mondo di senso su cui Consani tenta l’affaccio è un mondo insieme incoerente ed aperto e l’artista vi si muove con gli strumenti del linguaggio, del mito – nel significato soprattutto barthesiano[3]del termine – e dell’arte, in cui lo scambio fra il simbolico e il naturalistico è costante, dove i livelli di significato – oggettivo, espressivo e documentario[4]- slittano continuamente l’uno nell’altro, l’uno sull’altro. Per cui la festa che è finita è quella che si era svolta per secoli sotto quella costellazione di idee, di nozioni, ma anche di credenze e di pregiudizi che aveva illuminato la cosiddetta Cultura Occidentale, e aveva dato luogo ad una visione di un “mondo dominato e posseduto da una sintesi istantanea”[5]totalizzante.
3. Al Hoceima.
[Patrick aveva ricevuto l’ingiunzione di lasciare il paese, dove aveva svolto con successo la propria attività negli ultimi quindici anni, entro ventiquattro ore. Quella sera dette la più fantasmagorica festa della sua carriera, a cui partecipammo tutti, dai residenti stranieri come me, agli ultimi coloni spagnoli, che avevano deciso di restare a dispetto della maroquanisaciòn in vigore già da un paio d’anni e che ne aveva decimato la comunità, ai giovani rampolli dei potentati locali. Era una notte calda di mezzo settembre, senza luna. Io ero solo.]
Pier Luigi Tazzi
Parigi, gennaio 2011.
[1]Al pari di certe installazioni del coetaneo e conterraneo di Navin Surasi Kusolwong realizzate soprattutto in Europa, che tuttavia si vanno svuotando a volte nel corso dell’azione di cui sono la sostanza costitutiva e la scena.
[2]A Fukuoka fa riferimento la partecipazione di Consani alla prima Aichi Triennale, Nagoya, 21 agosto -31 ottobre 2010, a cura di Akira Tatehata, Masahiko Haito, Hinako Kasagi, Pier Luigi Tazzi e Jochen Volz.
[3]Cfr. Roland Barthes (1915 -1980),Mythologies, 1957.
[4]Il sociologo di origine ungherese Karl Mannheim (1893 -1947), il cui primo maestro era stato Georg Lukàcs, pubblica nello Jahrbuch für Kunstgeschichte, vol.XV (1921-1922), l’articolo “ZurInterpretation der ‘Weltanschauung’”,trad.it. in K.M.,Saggi sulla sociologia della conoscenza, 1952, dove propone la prima formulazione di questa teoria dei tre livelli di significato, ripresa successivamente da molti storici dell’arte del tempo, fra cui Erwin Panofsky.
[5]V. Maurice Merleau–Ponty(1908 – 1961),”Le langage indirect e les voix du silence”,in Signes, 1960, p.63.
NEVERENDING
Navin
The party hosted by Navin Rawanchaikul for the presentation of his book Navin’s Salaat The River on the 3rdof July 2008 was particularly grand. The architectural complex of The River was not yet finished and at that time only had two storeys, and yet many of the apartments which were to occupy the then inexistent upper floors had already been sold. There the Jim Thompson company sold its products designed by Navin. A mini-retrospective of Navin’s work, curated by Steven Pettifor, expanded from the second floor into the other spaces. Inson Wongsam, the hero of one of Navin’s most suggestive works, Fly with Me to Another World, 2000-2009, was amongst the numerous guests and wore, like Navin and his closest collaborators and most frequent characters, a jacket designed by Navin in homage to Jim Thompson. There were different buffets. There was a small group of Bangkok taxi drivers who had neatly parked their blue vehicles against a large sign which read HAIL A RIDE WITH NAVIN GALLERY BANGKOK.
Not only was there no centre – the work, the artist’s work, the exhibition, the book, the party itself – but everything was de-centred. To western emptiness (le vide, the void) oriental fullness[1]responded paradigmatically: a depolarised space indefinitely saturated with centres which in the end appeared to have none, the materialisation of an isotropy which extended beyond the space of the party – The River – into the Bangkok night, and the nights of the world running after each other, like the sun, bringer of light, around the terrestrial globe, Ptolomeically speaking.
Is the party over?
Michelangelo Consani, inverting the point of view and the plane of vision, attempts an analogous operation with the time of History. The title of his event, La festa è finita, is like a response, displaced in space and time, to Navin’s event, which was a party without a name. For Consani the party has happened, it had that name, but now it is finished: The party’s over. It is like being in a post-, in an afterwards, standing within an event which is neither a commemoration or celebration or retrospective enquiry, in figuris, of something which has been, and which was, as much an actual manifestation of being present, of being in the present. This presentification is due to the consistency, aesthetic and discursive, of every element of the environment constructed for the occasion determined by the event, and by the cohesive altogether of the ensemble.
Every one of these elements is constructed of images both fixed and in movement, as well as a small series of objects, each of which is the product of a transformation, both of its material and its function. None of these elements is what it was at its origin, near or far though that might be. This transformation is an index of their respective presentification. We are all of our time [Which time?]. Moreover each element, whatever form it presents itself in and indifferently with respect to it – free circulation allowed among various available media – concerns the eleven ‘guests’. All characters, without actors, from the last century, the umbilical cord still uncut: from the gangster John Herbert Dillinger(1903 – 1934) to the industrialistHenry Ford (1863 – 1947) and to the equally American maker of agricultural tractors Allis Chalmer (from 1914 al 1999), from the filmmakerMarco Ferreri (1928 – 1997) to the actor MichelPiccoli (1925, one of two of the guests still alive) and the artist Mario Schifano (1934 – 1998), from the American geophysicist for Shell Marion KingHubbert (1903 – 1989) and from the British geologist Colin Campbell (1931, the other guest still breathing)to the designerAchille Castiglioni (1918 – 2002), and finally the two pioneers of alternative agriculture, the Englishman Arthur Hollins (1915-2005) and the Japanese Masanobu Fukuoka[2](1913 – 2008). The individual criminal act, industry, petroleum, cinema, art, design, and alternative means of production together draw a precise and yet unusual picture of the century we have just left behind, and they reveal a particular history which continues into our present, both nourishing and poisoning it. Not so much to hold them together because they slip away, because in fact they escape any reciprocal similarity, but to include them in a kind of sequential chain, not so much common characteristics but minimal pairings, emerging from concrete data – for example: the car used by Dillinger for his heists was a Ford; or: Ferreri made a film with the title Dillinger is dead(1969) in which Piccoli was the protagonist with part of it being filmed in Schifano’s house – like an exquisite corpse on an unfolded page. Each of the ‘guests’ has contributed to the history of their century, not so much making it as being an expression of it. Their lives or career or simply persona presents internal, intrinsic contradictions, as life does for everyone. Contradictions, these unravellings, these deviations, incongruities, dead-ends, open roads or interrupted paths, do not so much constitute the essence, the quality or the value (real value?), of their experiences or of their doings or of their legacy, no matter how large or small this was, as much as they assume the connotations of individual physiognomic traits – such as, I don’t know, how someone ends up having red hair, as happened with me. Nonetheless, it is on these traits that Consani’s project seems to insist, reuniting them in the role of invited guests to the party, which as the title says, is over, in the same way that the valency of their work has elapsed: they have left life and have entered the paradox of history. The world of meaning which Consani attempts to enter is a world both incoherent and open, and the artist moves with the instruments of language, of myth – above all in the Barthesian[3]sense of the term – and of art, in which the exchange between the symbolic and the naturalistic is constant, where the levels of meaning – objective, expressive and documentary[4]– slip continuously one into the other, one over the other. Thus the party that is over is that which took place for centuries under that constellation of ideas, of notions, but also of the beliefs and prejudices which have illuminated so-called Western Culture, and gave place and a vision to a totalising “world dominated and possessed through and through in an instantaneous synthesis”.[5]
3. Al Hoceima.
[Patrick had received the injunction to leave the country where he had successfully conducted his business for the last fifteen years within twenty four hours. That evening the most phantasmagorical party of his career took place, one in which everyone took part, from foreign residents like myself, to the last Spanish colonists who had decided to remain notwithstanding the maroquanisaciònwhich had ruled for the last couple of years and which had decimated the community, to young bucks to local potentates. It was a hot and moonless mid-September night. I was alone.]
Pier Luigi Tazzi
Paris, January 2011.
[1] Similarly to certain installations by Navin’s peer and countryman Surasi Kusolwong realised mostly in Europe, which however become empty in the course of the action of which they are the principal component and scene.
[2] Consani’s participation in the first Aichi Triennale, Nagoya, 21 August – 31 October 2010 – curated by Akira Tatehata, Masahiko Haito, Hinako Kasagi, Pier Luigi Tazzi and Jochen Volz – also refers to Fukuoka.
[3] See: Roland Barthes (1915-1980), Mythologies, 1957.
[4] The Hungarian-born sociologist Karl Mannheim (1893-1947), whose first teacher was Georg Lukàcs, published in the Jahrbuch für Kunstgeschichte, vol. XV (1921-1922), the article “ZurInterpretation der ‘Weltanschauung’”, Italian translation in K.M.,Saggi sulla sociologia della conoscenza, 1952, where he proposes the first formulation of the theory of three levels of meaning, taken up successively by numerous art historians over the years, amongst whom Erwin Panofsky.
[5] See: Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) The Prose of the World. Evanston: Northwestern University Press, (1973), p. 53