OKINAWA
I
L’artista svuota quel che l’arte ha riempito.
II
Sembrava avere un proprio stile, disaffettato e, a suo modo, provinciale – una provincia in quanto non era ancora riuscita a crescere secondo quelle che erano le sue più speranzose aspettative e restava defilata e dolcissima nella propria dislocata inadeguatezza – e infantile – un’infanzia incantata incantevole e irrisolta. Uno stile che si fondava su atteggiamenti ostensibilmente ritrosi, in modi che apparivano sempre di un tempo anteriore, mai in realtà veramente vissuto, tradotto in figure che ogni volta lo rendevano incredibilmente credibile. Come se quello che era stato prima, prima di “ora”, quella realtà, che pur si dava come tale mediante le tracce certe che aveva lasciato, non potesse esser recuperata se non attraverso una serie di frammenti per i quali non aveva alcun rilievo che fossero veri o fittizi, in tutto o in parte, invenzioni della fantasia o ricostruzioni di una memoria condivisa o non condivisa. Per poi scoprire alla fine, sul fondo, che, nonostante tutto questo oscillare fra invenzione e realtà, in effetti, le cose stavano in tutt’altro modo. Di fatto si trattava ogni volta, non tanto di dare una differente lettura di quel che era stato, di quella supposta realtà, e che il linguaggio comune, la vulgata, la storia, avevano fissato in certe specifiche forme, sempre suscettibili, beninteso, di esser modificate ad ogni mutamento, evoluzione, sviluppo, cui sono sottoposti il linguaggio comune, la vulgata, la storia, quanto di scoprire e portare in evidenza, un’evidenza labile, uno strato diverso di quella realtà, di quel che era stato. Uno strato, stato, che era stato come accantonato, dimenticato, soppresso, uno strato, stato, sottocutaneo, prima ancora che sotterraneo. E allora quella stessa realtà, che si trattasse di avvenimenti o situazioni fondamentali, oppure di eventi apparentemente del tutto trascurabili o di circostanze decisamente di poco conto, si manifestavano sotto altre forme. Forme in cui incertezza e acutezza avevano la stessa valenza, ché attingevano, incertezza e acutezza, alla medesima fonte di potenza, oscura e misteriosa, sottocutanea, invisibile e imperscrutabile, ma della quale non si poteva non constatare la fondamentale influenza sul corso delle cose che, in altre forme, come abbiamo già detto, il linguaggio comune, la vulgata, la storia, avevano, o avrebbero, accertato.
III
Shima tendeva ogni volta all’identificazione di certi segni che indicavano una volontà di comunicazione, prima ancora che di espressione, una comunicazione che, proprio per questo suo venir prima dell’espressione, era rimasta, resta, inespressa.
Alcune settimane fa, tornando da una passeggiata in città, mi portò uno strano oggetto che mi disse aveva trovato per strada. Era composto di varie cannucce di plastica, di vari e teneri colori trasparenti, infilate una dentro l’altra ai loro rispettivi apici e terminava con intrecci angolari di lunghi stecchini di legno appuntiti da una parte sola, a loro volta collegati con la sequenza delle cannucce nelle due estremità. Chiedemmo a varie persone del posto – eravamo ambedue stranieri in quel luogo – se avesse un significato o una funzione. Nessuno ci seppe dare niente di più convincente come risposta che si trattava di una composizione senza alcun significato fatta alla fine di un pasto.
Shima se ne appropriò e la intitolò Message.
Laddove Shimabuku intercetta segni di un universo pacato, Michelangelo Consani tende ad individuare, o a dar luogo a, momenti di tensione, una tensione sempre irrisolta, come deve essere, e non potrebbe essere altrimenti, o stati di equilibrio, equilibrio instabile – fermati mondo, immagine, figura del mio insopprimibile desiderio, fermati, sta lì quell’attimo insuperabile che tutto salva, fermati, io lo voglio, io che muoio, svanisco, mi disperdo, fermati, un solo momento, fermati (Goethe, Wilde).
Tutti e due provengono da un altrove, a cui sanno di non più appartenere, un altrove rispetto alla centralità onnipotente del mondo: Okinawa, Livorno.
Io: io sono al ventiduesimo piano del Baan Chao Phraya di Bangkok ai primi di giugno dell’anno di grazia 2008, e da pochi minuti è cambiata la data, e, come dice il mio amico Italo, finisco sempre con il parlare della Siberia.